Una riflessione sull’accanimento terapeutico: di per sé è immorale e il rifiuto di praticarlo non si deve confondere con l’eutanasia passiva,ma in pratica le distinzioni possono risultare difficili e qualche volta potrebbero essere strumentalizzate per motivi non nobilissimi …
Il Comitato Nazionale per la bioetica ha definito l’accanimento terapeutico “come un trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”.
Da ogni parte in modo unanime si condanna l’accanimento terapeutico, affermando che non tutte le risorse per prolungare la vita, di cui la medicina dispone, si risolvono sempre a vantaggio del morente. Io personalmente, quanto all’applicazione pratica, sono divorata dai dubbi su questo tema e vorrei esplicitarne qualcuno qui di seguito.
Spesso un intervento che prolunga la vita di un morente ne prolunga ovviamente anche la sofferenza, ma dire che questo sia sterile perché impedisce di vivere la propria morte da protagonisti mi sembra una considerazione astratta, priva di un collegamento con la realtà di carne e sangue che costituisce l’uomo.
Le statistiche dicono che davanti al 90% dei medici negli Stati Uniti, gli anestesisti rianimatori italiani sono quelli che meno di tutti, al di sotto dei 10%, fermano ogni intervento terapeutico nei casi in cui le cure non servano più e il malato sia in uno stato terminale della vita. Perché?
Negli stati Uniti la sanità è un business privato: se non sei assicurato, non ti curano, e i medici devono essere produttivi. Naturalmente il malato terminale è un costo che le cliniche non vogliono sostenere, quindi vengono incentivate tutte le politiche possibili per accorciare l’agonia, diciamo così, mediante anche un martellamento formativo del personale sanitario.
In Italia la sanità pubblica avrà sicuramente enormi problemi, ma ha il vantaggio di far lavorare il medico con più serenità rispetto ai costi degli interventi che mette in atto nella cura dei pazienti. E questo farà male al bilancio ma fa bene ai malati, che vengono curati con caparbietà e impegno, indipendentemente dal loro reddito e dalla loro aspettativa di vita. A dire il vero in Italia esiste pure un’altra motivazione, che spinge il personale medico a fare tutto il tecnicamente possibile, anche quando è umanamente sconsigliato, ed è la paura delle conseguenze legali: infatti i parenti delle persone decedute hanno la denuncia facile e la mancanza di chiarezza della normativa giuridico-deontologica attuale incentiva quindi comportamenti difensivi da parte dei medici a scapito dei pazienti.
Resta il fatto che mettere in atto la desistenza terapeutica da parte del medico significa dover emettere un verdetto di condanna senza appello, la parola fine nella speranza di un paziente e dei suoi famigliari, e non deve essere una cosa facile. Credo che non sia facile umanamente, ma mi resta il sospetto che non lo sia nemmeno dal punto di vista medico-tecnico: è davvero così netto il confine tra possibilità e impossibilità di un recupero? Inoltre, sapere che il destino di una persona è comunque segnato nel breve, ci autorizza a desistere da tentativi di prolungamento della sua vita? Un giorno in più non vale nulla nel bilancio di una vita?
Si parla spesso di sofferenze insopportabili, ma su questo non sono affatto d’accordo: la medicina possiede le conoscenze per mettere in atto le terapie del dolore che possono migliorare la qualità della vita anche del malato terminale, restituendogli la dignità di essere umano, perché il dolore, quello sì, disumanizza e annebbia la coscienza. Terribile sarebbe scoprire che, visto che una terapia non è volta a curare ma solo a non far soffrire, per questo non venisse applicata al morente. Ma spero che questo non succeda mai.
E allora quando si realizza questo tanto vituperato accanimento terapeutico?
Mia figlia è morta a 4 mesi e mezzo, dopo una breve vita difficile e segnata dall’ospedalizzazione. Ricordo l’ultima notte in terapia intensiva, quando i suoi piccoli polmoni erano al collasso e il suo cuore iperdilatato stentava a battere. Il monitor faceva bip bip a cadenza regolare, in lento inesorabile rallentamento. Poi un lungo fischio prolungato, segno dell’arresto cardiaco. I medici mi hanno mandato fuori in fretta e furia hanno cercato di rianimarla, per 20 lunghissimi minuti. Poi si sono arresi. Mi hanno restituito il corpo martoriato della mia bambina, con buchi per le flebo ovunque, la cassa toracica schiacciata dal massaggio cardiaco tentato fino all’ultimo, le braccine nere per gli ematomi. Sì lo sapevo che sarebbe morta, lo sapevano anche i medici. Stava soffrendo? Probabilmente sì, certo non si stava divertendo, con quel suo respiro affannoso e lo sguardo spento e smarrito. Ma io non lo chiamerei accanimento terapeutico quell’ultimo disperato tentativo di rianimazione, ma piuttosto l’ho visto come un atto di amore e di speranza, di rispetto verso la vita e il suo altissimo valore anche quando abita in un corpo ferito e morente, di rispetto verso il mio dolore di madre, perché per il cuore di una madre la parola fine non esiste mai.
Fino all’ultimo sporco e doloroso secondo di vita, è stata vita.
Ho tanta paura che l’espressione “accanimento terapeutico” possa diventare un cavallo di troia per far entrare poi anche l’eutanasia e, sotto la maschera del finto-pietista che vuol togliere dolore al paziente, si voglia in realtà tagliare i costi della sanità, con l’accondiscendenza di chi non ha la forza di stare accanto a chi soffre e confonde il proprio dolore con quello del morente. Meglio sarebbe dare un sostegno a chi sta soffrendo insieme al malato, per trasformare un sentimento di resa in nuova energia e speranza.
Pubblicato su
dell' 08 giugno 2015
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