Luigino D’Angelo si è impiccato appendendosi alle scale della sua villetta a Civitavecchia il 28 novembre. Aveva 68 anni, era un pensionato e si è fatto soffiare 110mila ero di risparmi dalla Banca Etruria e dal decreto di Bankitalia adottato dal governo per salvare quattro banche in crisi, a discapito dei risparmiatori.
Era pensionato, cioè aveva lavorato tutta una vita, non era nato ieri, e si era accorto da tempo che la banca stava cercando di soffiargli i suoi risparmi, modificando a sua insaputa la classe di rischio del suo investimento da sicuro a massimo rischio. Lui stesso racconta delle sue diatribe con la filiale, in una lettera scritta dentro il pc ed ora in mano agli inquirenti.
Luigi non si è tolto la vita per i soldi persi, ma per la rabbia di essere stato preso in giro, gabbato, frodato dal prepotente di turno, con le spalle guardate dallo stato che, con il colpo di grazia del decreto, ha messo la parola fine alle sue speranze di giustizia.
Il colmo dell’indecenza in questa storia però emerge solo dalle parole sconsolate della moglie: “La polizia mi ha consigliato di stare calma e tranquilla. Oltre a tutto quello che sto passando potrei rischiare anche di peggio”, “In commissariato mi hanno consigliato cautela – spiega -. La lettera era nel computer di mio marito, l’hanno trovata loro. Ma non è firmata e la banca potrebbe dire che l’ho scritta io che non so neanche come si accende il computer.”.
Quindi la banca esaspera l’uomo fino al suicidio ed ora di fatto intimidisce la moglie al silenzio. Questo è, nei fatti, il quadro risultante.
Ma chi è “la banca”? Ha una testa, due braccia, due occhi? No, la banca è solo una struttura astratta, un meccanismo procedurale, fatto però di uomini e donne che svolgono mansioni e prendono piccole e grandi decisioni ogni giorno, dalla loro scrivania, dallo sportello, dall’altro lato del telefono.
Chi ha parlato con Luigi? Chi ha manovrato sul suo investimento fino a farlo evaporare? Chi gli ha negato ogni restituzione?
Probabilmente solo uomini che eseguivano delle direttive, come soldati al fronte col fucile in mano, dentro la trincea: mi dispiace, non posso fare nulla, queste sono le regole della banca, così mi ha detto il superiore, eccetera eccetera.
Lo stabilirà la magistratura, dove arriva la catena delle responsabilità. Resta il fatto che di banche in attività ce ne sono migliaia in Italia e moltissime di queste, nella loro ordinaria amministrazione quotidiana, se non truffano almeno omettono di dire molte cose ai correntisti, preoccupate soprattutto di raggiungere gli obiettivi di bilancio, non certo di fornire un servizio che soddisfi il cliente, in special modo se il cliente è un piccolo pesce. I dipendenti hanno un budget da riempire con ogni mezzo lecito ed illecito per ottenere il premio di produzione promesso, o anche solo per mantenere nel proprio posto di lavoro un’aria respirabile, visto che pure il premio del capo dipende dal medesimo obiettivo, ma è molto più alto di quello dei dipendenti e molto più rabbiosa è la sua motivazione allo sprone.
Non voglio con questo stigmatizzare l’intero settore, in realtà questo rischio di disumanizzazione a favore del denaro è una deriva generalizzata che colpisce tutti i servizi e si innesta facilmente nella cosificazione delle persone: vali solo se hai disponibilità finanziaria, ha dignità tutto e solo ciò che fa guadagnare, è morale ciò che è legale e conforme agli obiettivi personali.
E’ proprio l’intero meccanismo di sollecitazione con premio crescente, man mano che si sale nella scala gerarchica, che rappresenta la strozzatura del sistema, la legalizzazione dell’ingiustizia di livello, la creazione della piramide dove l’utente è alla base, schiacciato e non servito, mentre il direttore generale è al vertice, a mungere tutta la baracca.
Non si tratta più di retribuire maggiormente il maggior merito, ma di spremere i propri sottoposti con lo zuccherino di una piccola carota per ottenere una grossa carota.
In generale quando si parla di premiare il merito si apre il problema pratico di come fare e la determinazione di un obiettivo con monitoraggio del suo raggiungimento è il modo classico teorico insegnato dagli esperti di gestione aziendale. Eppure ci sono cose che non si possono misurare, schematizzare, burocratizzare: non siamo solo numeri.
In tutti i sistemi organizzati non si può prescindere dal buon senso umano e quanto più il contesto è teso e difficile, tanto più serve intelligenza ed umanità, non certo schematica applicazione di regole astratte.
Forse non siamo proprio in guerra, anche se c’è chi definisce l’attuale situazione internazionale come una terza guerra mondiale a pezzi, ma sicuramente assistiamo a fenomeni estremi dove qualcuno si comporta come il generale di un battaglione e qualcun altro recita la parte del soldato costretto all’obbedienza. E’ l’alibi collettivo che scarica le coscienze, che sgrava i singoli del peso delle conseguenze dirette ed indirette delle proprie azioni all’interno del mondo del lavoro, dove siamo quasi tutti solo piccoli ingranaggi di grossi e complessi meccanismi.
Non ho risposte, ma solo lancinanti domande: quell’impiegato che ha detto l’ultimo no al signor D’Angelo, che consapevolezza aveva della propria azione? Che poteri oggettivi di manovra aveva? Davvero non poteva fare diversamente, o non voleva per non incorrere in una violazione interna? Fin dove le regole del nostro micromondo valgono più della nostra morale, più dell’umanità, più della giustizia?
Ma anche, e più drammaticamente, mi domando quanto conta l’empatia e la compartecipazione nell’eseguire un compito spiacevole e duro, per lenire l’ingiustizia e la sofferenza? Sarebbe bastato un obolo simbolico di riconoscimento della correttezza della sua causa per salvare Luigi? Avrebbe fatto la differenza un volto più umano e gentile di un impiegato, una banale commozione? Forse si poteva salvare con l’abbraccio di un singolo cassiere?
Mi piace pensare che basta un solo giusto per salvare tanti ingiusti, basta un solo uomo retto dentro un mondo iniquo per dare speranza di riscatto. Non perdiamo il nostro sguardo umano, anche se tutto intorno a noi ci suggerisce di badare solo al profitto, anche se siamo gli unici a piangere e ad arrabbiarci. Sembra poco, sembra niente, ma forse può fare la differenza. Forse per Luigi l’avrebbe fatta.
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