Sta facendo scalpore lo spettacolo teatrale Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro di Giuliano Scarpinato
Questa la descrizione del progetto, fatta dai diretti interessati:
Esiste una parola, nella lingua di Samoa, che definisce coloro che sin da bambini non amano identificarsi in un sesso o nell’altro. Fa’afafine vengono chiamati: un vero e proprio terzo sesso cui la società non impone una scelta, e che gode di considerazione e rispetto. Alex non vive a Samoa, ma vorrebbe anche lui essere un “fa’afafine”; è un “gender creative child”, o semplicemente un bambino-bambina, come ama rispondere quando qualcuno gli chiede se è maschio o femmina. La sua stanza è un mondo senza confini che la geografia possa definire: ci sono il mare e le montagne, il sole e la luna, i pesci e gli uccelli, tutto insieme. Il suo letto è una zattera o un aereo, un castello o una navicella spaziale.
Oggi per Alex è un giorno importante: ha deciso di dire a Elliot che gli vuole bene, ma non come agli altri, in un modo speciale. Cosa indossare per incontrarlo? Il vestito da principessa o le scarpette da calcio? Occhiali da aviatore o collana a fiori? Alex ha sempre le idee chiare su ciò che vuole essere: i giorni pari è maschio e i giorni dispari è femmina, dice. Ma oggi è diverso: è innamorato, per la prima volta, e sente che tutto questo non basta più. Oggi vorrebbe essere tutto insieme, come l’unicorno, l’ornitorinco, o i dinosauri.
Fuori dalla stanza di Alex ci sono Susan e Rob, i suoi genitori. Lui non vuole farli entrare; ha paura che non capiscano, e probabilmente è vero, o almeno lo è stato, fino a questo momento. Nessuno ha spiegato a Susan e Rob come si fa con un bambino così speciale; hanno pensato che fosse un problema, hanno creduto di doverlo cambiare.
Alex, Susan e Rob. Questo spettacolo è il racconto di un giorno nelle loro vite, un giorno che le cambierà tutte. Un giorno speciale in cui un bambino-bambina diventa il papà-mamma dei suoi genitori, e insegna loro a non avere paura. Quando Alex aprirà la porta, tutto sarà nuovo.
Questa favolosa piece teatrale ha vinto un “prestigioso” premio che usa come passepartout per entrare nella programmazione scolastica come progetto didattico, il premio scenario infanzia 2014, ed è già stata rappresentata nel corso del 2014 a Bari, Lugano, Palermo, Torino e ha già una fitta tourée prevista per il 2016, a partire da marzo.
Ma cosa c’era scritto nel bando di concorso? Questo:
“Si privilegeranno inoltre i progetti che dimostrino di uscire dalle demarcazioni e dagli standard di genere, assumendosi il rischio dell’esplorazione, della contaminazione e degli sconfinamenti”
Ecco spiegato perché ha vinto il premio. Se non era Fa’afafine, era un altro par suo: il bando privilegiava i concorrenti che avessero affrontato il tema degli stereotipi di genere, il solito classico gender che non esiste, ma che ce lo ritroviamo dappertutto comunque. Tra l’altro il ministro Giannini ha espressamente dichiarato in una circolare ufficiale del MIUR che l’ideologia gender non va utilizzata come metodologia per prevenire il bullismo e la violenza di genere, e ha pure minacciato di adire a vie legali contro chiunque affermasse che il ministero sostiene tale ideologia nell’istruzione. Quindi non si capisce per quale motivo le amministrazioni comunali in giro per l’Italia continuino a finanziare con soldi pubblici questi progetti che la scuola, per essere conforme alle linee guida del ministero, non può includere nei POF e accade pure che invece le scuole glieli mettano: certo si intravvede un attimo di dolo nel titolo evasivo e fuorviante dello spettacolo e pure nella specificazione dei suoi titoli di merito in relazione alla formazione per l’infanzia. Ma non basta aggiungere ad un concorso teatrale la parola infanzia per renderlo automaticamente educativo.
Quindi, analizziamo per ordine i contenuti di questo “capolavoro”: l’età consigliata è 8-13 anni, MA sempre nel bando troviamo scritto: “Il termine infanzia, che si è voluto associare al nome del Premio, non si intende legato all’età anagrafica (puerizia), ma piuttosto a una stagione dello spirito, che attiene al mutamento e alla ricerca costante, e quindi all’apertura e all’ascolto, al di fuori di consuetudini e categorie.” Quindi anche nella definizione dei destinatari c’è la volontà di confondere, ed infatti questo spettacolo pare un minestrone psichedelico che attrae i bambini nella forma ma diffonde contenuti per i grandi.
Le favole per bambini non sono scherzi: le fiabe intrattengono il bambino e gli permettono di conoscersi perché offrono significato a molti livelli.
Esse pongono il bambino di fronte ai principali problemi umani (il bisogno di essere amati, la sensazione di essere inadeguati, l’angoscia della separazione, la paura della morte ecc), esemplificando tutte le situazioni e incarnando il bene e il male in determinati personaggi, rendendo distinto e chiaro ciò che nella realtà è confuso. Esse esprimono in modo simbolico un conflitto interiore e poi suggeriscono come può essere risolto.
La fiaba offre aiuto per superare il primo conflitto, che riguarda il problema dell’integrazione della personalità. Per evitare di essere sconvolti dalla nostre ambivalenze e di esserne lacerati, è necessario che noi le integriamo per conseguire una personalità unificata in grado di affrontare con successo e con sicurezza le difficoltà della vita. L’integrazione interiore è un compito che ci troviamo di fronte per tutta la vita, in diverse forme e gradi.
Questo spettacolo tutto colori e immagini surreali, invece di consolidare i punti di riferimento dei bambini, cerca di destabilizzarli, a partire dal ritratto caricaturale dei genitori dal buco della serratura, dapprima isterici e urlanti e alla fine amorevolmente accondiscendenti. Come dire ad un preadolescente che i genitori sbagliano, sono nemici, non sanno suggerire un giusto percorso di crescita ai propri figli e bene o male dovranno adattarsi. E’ un provocare la sfiducia verso le figure più importanti della loro vita e verso la loro capacità di discernimento, in cambio di un’indistinta e fumosa speranza nell’amore che vince sempre.
Se poi entriamo nel merito del messaggio dello spettacolo, ci infiliamo mani e piedi dentro la classica teoria del gender: ciascuno può essere libero di sentirsi maschio o femmina indipendentemente dal proprio sesso biologico e con la volubilità che preferisce e pretendere anche di essere corrisposto in una relazione affettiva in questa sua altalenante indistinta identità fluida. Infatti nella storia Alex di innamora persino di Elliot, il quale però è semplicemente un maschio e non lo ricambia: anche in questo caso, che messaggio si comunica? Che la relazione affettiva sognata probabilmente rimarrà non corrisposta? Che favola è quella in cui l’innamorato non è riamato? Non capisco dove sia il messaggio che l’amore vince sempre così ferocemente sostenuto dall’autore.
L’unica cosa che sembra dover vincere, e anche con la prepotenza, è l’idea che i nostri figli debbano essere confusi, spinti a non fidarsi dei propri riferimenti familiari, di mamma e papà, nella loro identità di maschio e femmina e nella loro capacità di capire, guidare e indirizzare i figli verso la scoperta di se stessi, verso il consolidamento della propria realtà fisica e psicologica.
E infatti il trailer dello spettacolo contiene questa patetica frase, a suggello:
“Siamo incommensurabilmente fortunati ad avere un figlio di genere non conforme. È troppo facile sentirti fortunato quando ottieni quello che desideri. Riesci a sentirti così e continuare ad essere riconoscente quando le cose non vanno come ti aspettavi? Sì, ci riesci. È questo che ci ha insegnato C. J.” (Lori Duron, Il mio bellissimo arcobaleno)
E’ chiaro che il messaggio non è per i figli, ma per i genitori, condotti con la subdola tecnica del senso di colpa a considerare disdicevole il desiderio di sostenere i figli nella definizione di se stessi, e invitati invece ad abbandonarli nella confusione isterica di ogni balzana espressione di ego.
In tutti gli esseri umani, anche nei nostri figli, non è nascosta la larva di un superuomo perfetto, intaccato dalla mala società e limitato dalle discriminazioni, bensì è celato sia il bene che il male, sia l’elevato intelletto che la cruda bestialità.
Educare significa tirar fuori il bene e respingere il male: non tutto ciò che sorge spontaneo dal cuore di un bambino va sostenuto, come l’istinto di dare un morso al compagno di giochi, o di buttare a terra il piatto o di urlare in faccia alla maestra. Così un’eventuale confusione nella definizione della propria identità sessuale non va incoraggiata come se fosse a priori un bene assoluto, ma approfondita e compresa come sintomo di un malessere.
La felicità non è essere accettati quando si è qualunque capriccio si vuole, ma essere se stessi, aderenti alla propria realtà di bene.
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