Visto che sono molto social ultimamente e anche molto ansiosa, mi sono iscritta ad un gruppo su facebook che si chiama “Comprendere e superare ansia e panico”, più per curiosità che per vera speranza di trovare qualche buon suggerimento, e anche perché di notte, quando l’insonnia mi infastidisce, sono sempre alla ricerca di qualcuno a cui rompere le scatole per passare il tempo (o, se vi sembra più poetico, con cui condividere le difficoltà del momento).
I partecipanti postano spesso le solite frasi fatte, citazioni più o meno famose, su ottimismo e pessimismo, senso della vita e coraggio di affrontare le situazioni. Sovrabbondano anche le foto di animali domestici, accompagnate da sperticati elogi all’amico peloso, che pare essere la sola consolazione di molte anime sofferenti. Qualcuno osa porre qualche domanda seria, per aprire il dibattito, tipo “cosa sareste disposti a fare per guarire?” o “cos’è per voi il vero amore?” o “avete subito un lutto in famiglia e come questo vi ha trasformati?”. Le risposte non mancano, molti raccontano la loro esperienza, altri esprimono vicinanza, i toni sono sempre raccolti, carichi di sincerà pietà (forse più per se stessi che per gli altri).
Ma un giorno qualcuno ha scritto una cosa più interessante del solito, che vi riporto:
Quando siamo fragili, è più facile legarsi alle persone e diventare un po’ dipendenti dalla loro amicizia. Questo non fa bene né a chi lo prova, né a chi riceve questo tipo di attenzioni. Quando ci rendiamo conto che il nostro stato emotivo è relativo alla presenza nella nostra vita delle persone a cui vogliamo bene…sarebbe bene chiedersi se si tratta effettivamente di affetto o di bisogno. Uno stato di bisogno rende un rapporto malato, qualsiasi esso sia. Per stare bene davvero, dobbiamo contare sulle nostre risorse interne e sull’aiuto psicologico che riceviamo nel nostro percorso. Delegare ad altri la nostra felicità, ci condanna ad uno stato di dolore cronico da cui è necessario uscire. L’amore è una scelta, come tale è libera. Lasciare andare è un atto d’amore soprattutto verso se stessi.
Riconosco che ad una prima veloce lettura mi è venuto da annuire con compiacenza, perché questa storia che per stare bene con gli altri è necessario stare bene con se stessi circola da tempo immemore e la prendiamo per vera senza tanto rifletterci sopra, ma l’accondiscendenza è durata poco, demolita da una montagna di obiezioni che mi sono sorte spontanee, una dopo l’altra, man mano che scorrevo nuovamente il testo.
Parto dall’inizio: “Quando siamo fragili, è più facile legarsi alle persone e diventare un po’ dipendenti dalla loro amicizia”. In realtà noi siamo sempre fragili, perché siamo persone con tanti difetti, aspirazioni deluse, esperienze negative, paure più o meno espresse, quindi dell’amicizia abbiamo SEMPRE bisogno. La parola “dipendenza” sembra evocare nel contesto un significato negativo, come se fosse il desiderio malato e malsano di qualcosa che ci fa male ma di cui non riusciamo a fare a meno. Invece l’amicizia ci fa bene e la necessità di avere relazioni con gli altri è un bisogno benedetto.
ll testo prosegue: “Questo non fa bene né a chi lo prova, né a chi riceve questo tipo di attenzioni”. Una simile affermazione recide sul nascere ogni moto di emotiva vicinanza umana! Ma come! L’amicizia tra persone fragili non fa bene a nessuno? Solo i supereroi sani e forti e senza criticità hanno diritto a godere di un’amicizia? Io credo sia vero l’esatto preciso contrario: proprio nei momenti più difficili, quelli in cui siamo più prostrati, la vicinanza di qualcuno è come balsamo sulle ferite, sia per chi è a terra, sia per chi tende la mano. Infatti la pratica della carità nutre il cuore di chi la fa, non meno di quello di chi la riceve.
Il peggio però viene dopo: “Quando ci rendiamo conto che, il nostro stato emotivo è relativo alla presenza nella nostra vita delle persone a cui vogliamo bene…sarebbe bene chiedersi se si tratta effettivamente di affetto o di bisogno. Uno stato di bisogno rende un rapporto malato, qualsiasi esso sia”. Alla base di questa affermazione sta la visione egocentrica dell’uomo che deve bastare a se stesso e che addita la sfera relazionale come una malattia, una preoccupante e momentanea deriva da arginare, evitare, eliminare. Il bisogno di amare ed essere amati è visto come una crepa nella corazza lucente dell’uomo che non deve chiedere mai, dell’uomo solo e solitario, che ha in sè tutte le risposte che cerca e la radice di ogni suo bene. Ma la verità è un’altra: l’essere umano è come una gamba di uno sgabello: il suo equilibrio è sempre precario ed instabile, impossibile reggere il peso della vita se non è concentrato in una continua automeditazione stile yoga perenne, in cui chiude gli occhi, fa i cerchietti con le dita e dice ommmm. Al primo refolo di vento, si cade a terra rovinosamente. Solo la condivisione del peso con altri esseri umani rende il nostro equilibrio finalmente stabile. Anzi, per esplicitare ancora meglio la metafora dello sgabello, dico subito che le gambe torte, ma opposte, garantiscono più stabilità di quelle dritte, come a dire che proprio quelle caratteristiche che ci fanno sentire deboli, fragili, addirittura “sbagliati”, se mescolate nella relazione vera a quelle degli altri, risultano essere le più efficaci ed utili, il valore aggiunto, la testata d’angolo.
Per stare bene davvero NON dobbiamo contare SOLO sulle nostre risorse interne, o al massimo il supporto di qualche terapista (a pagamento), ma dobbiamo aprirci al mondo e dare ciò che siamo, nel bene e nel male, con fiducia e coraggio. Il dolore cronico che ci affligge è dovuto al fatto che alimentiamo in noi l’aspirazione irrealizzabile di essere autosufficienti e sperimentiamo poi quotidianamente la sua inafferrabilità. Ci autodeludiamo di continuo perché ci poniamo obiettivi disumani, nel senso proprio del termine, cioè non idonei all’essere umano.
L’amore è una scelta, è vero, ma è anche una necessità da cui non possiamo prescindere e insieme un dono da accettare con umiltà e realismo. E all’amore si possono affiancare tanti aggettivi ed appellativi, ma che debba “lasciare andare” proprio non capisco cosa significa: o si intende che devo lasciare andare libere le mie pulsioni spontanee, volatili come il vento e passeggere come le stagioni? Oggi mi va, oggi non mi va, adesso mi sento, ora non più. Il mio bene non è questo, ma è creare delle relazioni serie, profonde, sincere, su cui investire le mie capacità, riversare i miei talenti, per quanto essi mi possano sembrare scomposti e sfilacciati, parziali e minimali. Come in un puzzle, la mia strana protuberanza si combina con lo strano foro dell’altro e insieme facciamo l’armonia dell’immagine completa.
Questo discorso vale per ogni relazione, ma è tanto più vera nel rapporto uomo-donna esclusivo ed indissolubile del matrimonio: le differenze dei due sessi sono macroscopiche ed evidenti, nonostante adesso si stia facendo di tutto per negarle, e costituiscono il motivo per cui nessuna delle due parti è in grado di bastare a se stessa. E’ come se fossimo tutti inclinati e fuori asse, alla ricerca di un appoggio uguale e contrario che ci sostenga e da sostenere a nostra volta. E’ un’alleanza quella da stabilire, non un momentaneo affiancamento, da sciogliere alla prima fugace perlessità. Oggi un matrimonio si può sciogliere più velocemente di un contratto di telefonia, come a dire che la relazione di dipendenza dal nostro smartphone è più sana e importante di quella con il nostro coniuge.
Dopo aver letto tanti post e le discussioni al seguito, alla fine ho capito cosa manca in quel gruppo di persone di buona volontà. A parte il fatto che hanno in testa un modello di umanità ideale che non riescono a incarnare e forse proprio per questo sono ansiosi e depressi, ciascuno si appoggia su se stesso e sulla propria esperienza, al massimo ci si riferisce a qualche citazione colta, di illustri predecessori. Le parole sono tutte uguali, i commenti spenti, l’atmosfera contrita. Una vera consolazione non c’è, una reale condivisione e vicinanza non si riesce a stabilire. Infatti il famoso sgabello di prima ha sempre almeno tre gambe: io, tu e …
Pubblicato su La Croce del 6 maggio 2015
Be First to Comment