La Repubblica Centrafricana è un paese dilaniato dalla guerra civile, dove su 5.5 milioni di abitanti, ben 4.6 milioni hanno bisogno degli aiuti umanitari per sopravvivere, 460 mila sono profughi, 440 mila gli sfollati. In questo povero paese, il Papa ha annunciato che inaugurerà il Giubileo, il 29 novembre, anticipandone così di fatto l’inizio di una decina di giorni, rispetto all’apertura della Porta Santa in Vaticano in programma l’8 dicembre.
Il Pontefice ha detto apertamente che “spera” di poter rispettare la tappa in Centrafrica e nella capitale Bangui, dal momento che i continui scontri in atto mettono la visita a rischio. Quindi il suo annuncio: “Per manifestare la vicinanza orante di tutta la Chiesa a questa nazione così afflitta e tormentata ed esortare tutti i centroafricani ad essere sempre più testimoni di misericordia e di riconciliazione, domenica 29 novembre ho in animo di aprire la porta santa della cattedrale di Bangui, durante il viaggio apostolico che spero di poter realizzare in quella nazione”.
L’inasprimento del conflitto in Centrafrica avviene anche in vista delle elezioni presidenziali in programma a dicembre. Ieri sera, negli scontri armati a Bangui, due persone sono morte e due sono rimaste ferite. Secondo fonti militari, molte case sono state incendiate nel quartiere cristiano, sono stati avvertiti colpi di arma da fuoco e avvistati uomini, donne e bambini che fuggivano in tutte le direzioni. Miliziani cristiani, inoltre, si sono organizzati per presidiare le case contro l’assedio di miliziani islamici armati.
Suor Elianna Baldi è una suora comboniana che vive nel Paese dal dicembre 2011; per lei la visita del Papa è davvero l’ultima speranza a cui aggrapparsi per risolvere una situazione drammatica, senza una soluzione visibile all’orizzonte, e non vuole neanche prendere in considerazione l’ipotesi che la tappa del Santo Padre possa saltare. La popolazione cristiana del Centrafrica attende la sua visita come si invoca un miracolo. Una signora ha affermato che “quando lui arriverà, tutta la sua schiera degli angeli scenderà con lui e non potranno non riuscire a vincere il male che abita ancora il cuore di tanta gente!”.
Non si può dire che le autorità civili, i gruppi armati e le forze internazionali che dovrebbero pacificare il Paese attendano il Pontefice con lo stesso spirito. A distanza di quasi tre anni dall’inizio della crisi – cominciata con disordini del dicembre che hanno deposto il presidente (a sua volta golpista) Francois Bozizé – il Centrafrica è diventato uno dei Paesi più poveri e arretrati dell’Africa: non conosce pace e sembra avviluppato in una spirale di violenza, divisioni, interessi locali e internazionali, giochi di potere e derive religioso-identitarie, con una classe politica immobile e inetta, totalmente incapace a gestire la transizione.
Gruppi criminali spadroneggiano in tutto il Paese, saccheggiano, uccidono, devastano senza controllo e senza legge. Ma anche senza un’idea, un’ideologia o un fine. Violenza fine a se stessa, che qualcuno però strumentalizza per mantenere il Paese nel caos e continuare a saccheggiarne le ricchezze.
Anche chi, come la missione delle Nazioni Unite (Minusca) e quella francese Sangaris, dovrebbe promuovere e sostenere il processo di pacificazione e riconciliazione, sembra invece essere diventato parte del conflitto. La popolazione li detesta, chiede che se ne vadano. Lo scandalo degli abusi sessuali compiuti sui minori da parte di militari ONU e francesi non ha fatto altro che accrescere l’ostilità per un contingente che, al di là dei proclami a deporre le armi e a mettere fine alle violenze, non ha fatto quasi nulla. “Se fai quello che ti chiediamo, poi avrai cibo”: così si sarebbero sentiti rispondere alcuni bambini centrafricani che avevano avvicinato i soldati francesi della missione di peacekeeping per chiedere loro del cibo. Avevano dai nove agli undici anni, erano maschi e alcuni anche orfani. In seguito agli scontri in atto nel paese, vivevano come sfollati nell’aeroporto M’poko della capitale Bangui.
Cercavano cibo e si sono ritrovati abusati e sodomizzati. Le testimonianze di sei di loro, molto lucide e dettagliate, sono state raccolte e inserite in un dossier riservato dell’ONU.
Dopo due anni di presenza, il processo di disarmo non ha dato praticamente alcun risultato. E si moltiplicano le accuse di complicità nel saccheggio delle risorse e nel fornire armi a questo o quel gruppo. E anche di violenze: negli scontri di fine settembre i Caschi blu burundesi hanno ucciso tre persone.
I mezzi di comunicazione diffondono la notizia che alla base di questa guerra ci sono conflitti etnici e scontri tra cristiani e musulmani, ma non è vero: quello della guerra di religione o dello scontro di civiltà è uno stereotipo sciagurato e devastante che ha goduto di una triste fortuna negli ultimi decenni. Nella Repubblica Centrafricana il conflitto etnico e religioso è una novità degli ultimi mesi, alimentata ad arte con l’irruzione sulla scena dei ribelli provenienti da altri Paesi limitrofi.
Chi ha interesse che questi disordini continuino?
Come è noto, lo sfruttamento delle materi prime del pianeta è oggi una delle principali fonti di rendita. Le corporation dell’energia, dell’agro-alimentare, del legname e di altri settori chiave dell’economia mondiale, insieme al sistema finanziario internazionale, impegnato a imporre ai governi locali (spesso debolissimi, precipitati nella spirale perversa del debito, o corrotti) il depauperamento delle risorse naturali per estrarre valore dalla natura, stanno letteralmente mettendo a sacco l’Africa, senza rispetto alcuno per gli ecosistemi e le popolazioni. Tale processo si manifesta attraverso una lotta aspra e sordida tra i protagonisti di queste gigantesche rapine, legati a doppio filo agli apparati politici e militari delle vecchie potenze coloniali europee, degli Stati Uniti, ma anche della Cina e dell’India, entrambe fortemente interessate alle risorse africane per sostenere una crescita economica chiaramente insostenibile, delle monarchie petrolifere del Golfo, attratte dal sogno di rinverdire gli antichi fasti del Califfato, e del Sud Africa, che ambisce al ruolo di potenza regionale.
La Repubblica Centrafricana è uno dei paesi più poveri del mondo, in cui la qualità dello sviluppo umano è una delle più basse del pianeta. Eppure il suolo ed il sottosuolo del paese sono ricchissimi e potrebbero consentire una esistenza più che dignitosa a tutta la popolazione del paese. Ciò non avviene perché anche nel caso del Centrafrica, come di altri stati africani, si è avverata la ‘maledizione’ delle materie prime. La loro abbondanza, infatti, non ha favorito la crescita qualitativa del livello di vita della gente, bensì il diffondersi della corruzione tra le classi dirigenti locali che non hanno esitato, in cambio di denaro e armi, a svendere le ricchezze nazionali ai potentati economici e finanziari che si contendono il loro sfruttamento.
Il perdurare del caos, quindi, serve a spostare di volta in volta gli equilibri precari di questa guerra per il controllo delle materie prime che si combatte sulla pelle degli africani e del loro diritto a costruire un futuro migliore. Francia e Stati Uniti dispongono di basi militari in Senegal, Mali, Costa d’Avorio, Mauritania, Burkina Faso, Ciad e Repubblica Centrafricana (base francese di Bangui), mentre le zone di ‘attrito’ tra gli interessi occidentali e quelli cinesi si distribuiscono tutte attorno ai confini orientali, settentrionali e occidentali della Repubblica Centrafricana, in una vasta regione compresa tra il Mar Rosso e l’Oceano Atlantico e tra il Golfo di Guinea e le coste dell’Angola. Lungo la direttrice Mar Rosso-Oceano Atlantico si dispiega anche l’azione del terrorismo e del banditismo jihadista, che ha le sue basi di partenza e i suoi sostenitori nella penisola arabica e in Libia. L’ambizione sudafricana ad esercitare il ruolo di potenza regionale segue invece una direttrice sud-nord, in cui l’Angola, il bacino del Congo e il Centrafrica sono considerate terre di espansione dell’influenza di Pretoria.
I missionari in questa situazione sono gli unici ad essere sempre e comunque vicini alla popolazione che soffre e sta sostenendo il peso terribile della guerra per bande e di saccheggio. È importantissimo non solo portare un aiuto concreto ai tanti che soffrono e vedono il loro corpo, quello dei loro cari, la loro casa, il loro villaggio trasformati nel campo di battaglia e nella preda, ma anche esprimere tale vicinanza mediante una profonda riflessione sulla natura di questo genere di guerra nihilista, la cui fenomenologia è ormai prevalente in molti conflitti, non solo africani. Sarebbe quanto mai necessaria una denuncia radicale dei veri obiettivi di chi precipita interi paesi in un simile incubo. Il saccheggio dei beni materiali e delle risorse naturali è solo uno di questi obiettivi, il più grossolano e immediato, ma ne esiste un altro, più devastante e subdolo: la distruzione dei legami familiari, sociali, di comunità. La guerra distrugge, disgiunge, mente per ‘eliminare’ lo spirito di comunità ed il senso del bene comune delle popolazioni africane, unica garanzia per la risoluzione pacifica dei problemi e per lo sviluppo umano di queste genti. I missionari e tutti coloro che sono vicini alle vittime innocenti, tutte le donne e gli uomini di pace tentano di agire costruendo, unendo e ricercando sempre e comunque la verità.
In questo quadro drammatico, la visita del Pontefice in Centrafrica, Kenya e Uganda (dal 25 al 30 novembre) assume una connotazione di denuncia in sede internazionale delle gravi violenze che i Paesi ricchi stanno direttamente ed indirettamente esercitando in Africa e speriamo che sia davvero un’occasione per gli organi di stampa di tutto il mondo di accendere i riflettori su una situazione di grave ingiustizia e violazione dei diritti umani di cui in qualche modo siamo corresponsabili, almeno nell’omertoso silenzio e nel disinteresse con cui affrontiamo le notizie che giungono da quei Paesi.
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