“Purtroppo non ho mai combinato nulla di buono in vita mia, non ho mai portato a termine niente di ciò che avevo iniziato, sono inconcludente di natura e non avete idea di quanto mi faccia star male questo difetto”.
Queste sono le parole scritte da un’amica in chat, per confidare il suo stato d’animo a tutte noi del gruppo. Subito un fiorire di alzate di mano, a dire anch’io, anch’io, uguale pure io, preciso a me.
Un benevolo sorriso mi si è aperto sul viso, a leggere di quest’abbraccio virtuale, immediato e spontaneo, come una lacrima che cade sulla terra arida fa germogliare in un tripudio di colori una montagna di fiori. Ma pure mi ha fatto riflettere su questa auto-accusa di inconcludenza che nelle donne è così diffusa, quasi universale. Da dove viene?
A ben guardare, nessuna (o nessuno, vale per uomini e donne) può davvero affermare di aver portato a compimento nella vita ogni suo progetto: tutti, se ci pensiamo un po’, possiamo rintracciare almeno una decina di propositi iniziati e poi abbandonati, come un’attività sportiva, un viaggio, un quadro, un puzzle da 10mila pezzi, un corso universitario, un’attività professionale, un progetto educativo o ludico.
Però per ogni proposito disatteso, possiamo anche elencare ben più di dieci progetti felicemente e brillantemente conclusi: ogni festa di compleanno dei figli, organizzata con inviti, torta, palloncini colorati, salatini e stuzzicadenti con le bandierine è un inno all’efficienza femminile e alla sua tenacia nell’affrontare problemi e trovare risorse (soprattutto di tempo) dove non ce ne sono. Come pure ogni nuova mano di bianco passata sulle pareti ingiallite, dopo aver spostato mobili, coperto con teli il pavimento e nastrato stipiti di porte e finestre, è un elogio alla precisione e alla caparbietà maschile.
Eppure le donne si buttano giù più spesso degli uomini e con più autolesionismo. E’ solo una tendenza al piagnisteo? Io non credo. Mi sembra piuttosto il frutto di un giudizio su se stesse troppo severo, di un ideale di perfezione irrealizzabile (e meno male, vien da dire), in parte innato nella natura femminile che ha la pretesa del controllo globale insita nella sua struttura genetica, in parte provocato da condizionamenti sociologici più o meno evidenti.
Infatti oggi la donna socialmente realizzata è quella che ha un buon lavoro, ma anche dei figli (non più di due però), che riesce a seguire con costanza, grazie all’aiuto (sottinteso) di tate e nonni, tipo l’ultima cantante di grido che si porta il pupo in tournée con seguito di baby sitter e trenta valige di accessori, e rilascia interviste del tenore “sono felicissima di essere mamma, mio figlio è il motore del mio entusiasmo sul palco”.
Peccato che una mamma che lavori invece sa benissimo che l’insoddisfazione sarà sua compagna quotidiana, sentendosi in colpa per il tempo sottratto alla famiglia o per la montagna di panni da stirare che non riesce a smaltire, o per la polvere sui mobili; e contemporaneamente sentendosi in debito per ogni ora di permesso o di malattia chiesta per i figli, per ogni giornata in cui si è timbrato di corsa alle 17:01 perché c’era il figlio da andare a prendere non so dove, per ogni mangiata di lavoro saltata per scappare dalla famiglia. Tra l’altro, il pupo a casa, più che “motore di entusiasmo” sarà fonte di ore di sonno perse, di stanchezza, di preoccupazione.
E, peggio ancora, ogni donna che avrà deciso di non lavorare per dedicarsi alla sua famiglia, dovrà sopportare il peso di sentirsi una nullità sociale, una scansafatiche o una avventata generatrice di bocche da sfamare che pesano sul groppone della collettività.
Per questo molte donne hanno ormai interiorizzato il concetto che sono un fallimento, comunque. E con questa disposizione d’animo è facile rintracciare qualche evento della propria vita che confermi l’assunto.
Diciamolo con onestà: questo mito del capitalismo consumistico è contro le donne. La loro ricchezza si dispiega nella gentilezza del tempo, attraverso la cura con cui sostengono, amano, proteggono chi sta loro intorno, come un abbraccio affettuoso e prolungato, che dà fondamento alla sicurezza di sé di ogni essere umano. Il contributo delle donne al mondo del lavoro è, al momento, marginale, perché per loro ci sono solo spazi del tutto maschili. Infatti, a parte poche specifiche professioni dove la femminilità costituisce l’elemento chiave e fondamentale che dà a quel lavoro il valore aggiunto immediatamente riconoscibile, come l’insegnante di scuole materne o elementari, o le infermiere, o le operatrici agli sportelli (le donne sanno ascoltare decisamente meglio degli uomini e con maggiore innata empatia), in generale i mestieri richiedono produttività misurabile in termini di rapporto costi benefici e questo taglia fuori la genialità relazionale delle donne.
Da donna, dico che, se posso scegliere, non vado da una donna medico per farmi curare, perché il proverbio dice che il medico pietoso fece morire il paziente e quindi una donna medico può optare per essere un pessimo medico, che si lascia influenzare dalle lagne del paziente più che dai dati oggettivi o che non riesce a stoppare e contenere le ansie del malato, ma se ne lascia contagiare, o una donna che ha abdicato alla propria empatia innata per guadagnare in distacco e professionalità, ma che inevitabilmente avrà assunto un retrogusto acido da ‘uoma’.
Da donna, dico che non sopporto le donne manager, quelle che dirigono il lavoro di altri, quelle che comandano: i manager di mestiere prendono decisioni, nient’altro. Decidere significa scartare qualcosa, scegliere il meglio possibile, che comunque non è mai il meglio assoluto, e accantonare soluzioni valide, ma meno valide di altre; significa fare compromessi a volte azzardati. E’ un lavoro da uomini. Le donne sono inclusive, mettono un posto a tavola in più, giustificano tutti, danno un po’ di ragione a ogni istanza, perché le donne non ragionano a schemi rigidi, ma guardano il mondo come un quadro di Picasso, dove ogni figura è disegnata sia di fronte che di profilo, contemporaneamente. Le donne sono favolose collaboratrici di manager, perché a loro non sfugge niente, raccolgono i dati anche sotto i tappeti, vedono l’invisibile, captano pure le ansie di tutti, misurano il grado di soddisfazione dei dipendenti alla macchina del caffè. Non per niente, si dice che dietro ad ogni grande uomo c’è una grande donna.
Da donna, dico che il mondo ci odia: vorrebbe farci somiglianti agli uomini, usare dei nostri organi riproduttivi a pagamento, togliere valore alle cose che sappiamo fare meglio (come la mia insegnante di ginnastica alle superiori che smise di dare il voto sulla pertica, perché ero l’unica che riusciva ad arrivare fino in cima, visto che ero leggera come una piuma). Il mondo ci vuole convincere che la maternità è un peso, invece che una ricchezza; che l’empatia è una seccatura inutile, meglio farsi i fatti propri; che il sacrificio di sé è da stupidi, e l’egoismo è da furbi.
Da donna, dico che sono un po’ stufa di queste frottole, io e le mie amiche con i sensi di colpa perché non hanno finito l’università ed hanno “solo” una meravigliosa famiglia con tanti figli, o perché hanno abbandonato l’agonistica “solo” per partorire, o perché hanno accettato un lavoro che le soddisfa così così “solo” perché è vicino a casa e stanno di più in famiglia.
Io e le mie amiche vi vogliamo dire che, invece, siamo molto orgogliose di poter fare un lungo elenco delle cose a cui abbiamo rinunciato per amore (un po’ come la Clinton e Sanders si sono sfidati a chi aveva la lista di nemici più affollata): ogni fallimento per questo mondo ingrato è per noi segno di vanto ed abbiamo già adesso chi ci ripaga, nell’entusiasmo sincero di un bambino che ogni sera ci schiocca sulla guancia un bacione con succhiotto e dice buonanotte, mamma; nell’abbraccio affettuoso di un marito che vive fuori di casa grazie a quello che vive in casa, e lo sa, ogni giorno, lo sa un po’ di più.
Grazie per questa riflessione: in un periodo per me complicato, in cui mi sento tanto inconcludente e perennemente in colpa o verso la famiglia o verso il lavoro, è stata una manna dal cielo.