Il 20 giugno è arrivato e in un lampo, anzi, in un paio di nubifragi, è passato.
Un’esagerazione di persone, scusate non persone, famiglie intere, si sono stravolte nell’esistenza per fare in modo che il loro messaggio potesse essere udito lontano e a lungo nel tempo.
Ci tengo a sottolineare che la diatriba sui numeri è assolutamente inutile: un milione, quattrocentomila, cinquemila (si, qualche fantasioso ha pure detto che Adinolfi stava parlando di fronte a cinquemila persone, forse si riferiva alla prima fila). La questione è che c’è stato un passaparola repentino, un’organizzazione fulminea, una reazione ed una preparazione istantanee tanto che in un periodo di poco più di due settimane si è virtualmente mossa tutta l’Italia delle famiglie che hanno a cuore i propri figli.
Poco importa quanti erano, è importante che si osservi bene quanti avrebbero potuti essere. Ognuno di noi ha portato con sé le deleghe di altri che, costretti dalle vicende familiari, hanno avuto impedimenti. Altri che hanno i figli troppo piccoli o li hanno portati in vacanza proprio in quei giorni. Sì perché di solito, chi tiene ai figli, propri e degli altri, tende a farli e a crescerli. Noi stessi avevamo una famiglia che ci avrebbe accompagnato se non avesse avuto un’improvvisa malattia dell’ultimo minuto.
Troppo facile essere scapoloni liberi, tutt’al più accompagnati, con l’unico problema di quali località di grido frequentare per questo fine settimana e di cercare in quale locale l’aperitivo ha l’happy hour più lungo.
Facile avere un sabato libero, se non si hanno figli da scarrozzare a destra e a manca o da curare se sono malati.
Dico questo perché sono convinto che non saremo mai identificabili o riducibili ad un numero, neanche se avessimo fatto una piazza con gli ingressi dai tornelli.
Eravamo quindi tanti, muniti di deleghe e determinati. Sì determinati, perché se avessimo avuto anche la minima remora od il minimo dubbio su quello che stavamo facendo, il primo acquazzone sarebbe stato sufficiente a farci riprendere la metro e via, andare a passare il resto del pomeriggio in un centro commerciale, fresco e asciutto. Invece no, ci siamo infradiciati, abbiamo salvato i nostri bambini sotto impermeabili e coperture di nylon, abbiamo pregato Dio che tenesse lontani da noi tossi e raffreddori e ci siamo mantenuti saldi. D’altronde sappiamo bene che Cristo non salva dalla tempesta, ma ci salva nella tempesta. Lui non ne è fuori, Lui è li con noi, ma come dice il Vangelo, dorme.
Ci chiede di fare il primo passo, non gli piacciono le nostre rimostranze sbuffate a mezza bocca, quasi come bestemmie. Non gli è sufficiente il nostro mormorio scontento. Lui vuole essere scosso, ha bisogno che gli si lanci una voce. Deve essere chiaro che noi siamo suoi e abbiamo fiducia in Lui. Per questo lo invochiamo.
E’ allora che Lui ci risponde e ci fa trovare riparo in porti sicuri. Così ha fatto sabato 20. Noi eravamo lì perché volevamo lanciare una voce che svegliasse le coscienze, ma molti di noi hanno anche lanciato un grido al timoniere che dormiva. A Gesù.
Fermando la burrasca esattamente prima dell’inizio della manifestazione, ci ha fatto capire che lo abbiamo svegliato, che ha ascoltato le nostre grida? Non sono abituato a leggere i segni metereologici come risposte immediate di un Dio capriccioso o benevolo, di certo la tempistica fa riflettere.
La questione è che la tempesta da cui dobbiamo essere salvati ancora non è stata placata, anzi, sembra imperversare più forte che mai, si agita e soffia con raffiche violente. Sembra un serpente che si dimena dopo che è stato pugnalato. Guizza e si avventa su ogni cosa gli capiti a tiro. Dopo la manifestazione abbiamo subito attacchi verbali e mediatici di ogni tipo, i nostri siti di informazione e formazione sono stati bloccati da attacchi informatici, i relatori sono stati minacciati o comunque sono oggetto di continui tentativi di screditamento, le leggi che contestavamo stanno accelerando il loro iter parlamentare in modo estremamente sospetto … insomma sembra davvero di essere nell’occhio del ciclone, ma allora dove è la nostra salvezza NELLA tempesta?
Gesù rimprovera i suoi domandandogli conto della loro paura. Che forse hanno perso la Fede? Ecco la nostra salvezza, la Fede. Una Fede che si è vista, sentita, respirata, trasmessa. Una Fede in lui, ma anche in noi, nella nostra capacità di tirare fuori la testa dall’acqua e lottare per la nostra sopravvivenza.
Siamo noi stessi la nostra salvezza in questa tempesta, sono le famiglie che resistono, che educano i figli, che fanno quadrato per proteggersi, che si rivolgono alle persone che hanno eletto in parlamento, che pretendono di essere ascoltate.
Siamo il “piccolo resto di Israele” che si è riunito come popolo intorno agli anziani e si fa forza tramandando la Verità.
La tempesta sta ancora imperversando, molte saranno le case sulla sabbia che verranno abbattute, case sulla sabbia costruite anche da noi cattolici in tempi durante i quali le piogge sembravano tutte sopportabili, durante le quali gli ombrelli del dialogo e della mediazione sembravano sufficienti a non farci bagnare i piedi, ma non ci accorgevamo che le fondamenta marcivano e cedevano.
“E’ finito il tempo dell’essere cattolici gratis”: resteranno in piedi solo le costruzioni salde, quelle dove abbiamo investito tanto. E le prossime che costruiremo dovranno essere ancora più salde, solide, porte biblicamente strette e finestre piccole. Luoghi meno aperti, forse, ma certamente più sicuri. Luoghi dove ci terremo al riparo e dove terremo al riparo i nostri figli.
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