E’ iniziato l’avvento, e con esso la mia depressione prenatalizia, che mi raggiunge tutti gli anni, puntuale e precisa.
Le strade e le vetrine sono già un tripudio di lucette colorate, in TV passano gli spot dei panettoni e dei giocattoli ogni cinque minuti, persino alla radio azzardano qualche musica natalizia ogni tanto. La poderosa macchina mass-mediatica del commercio natalizio si è messa in moto e sta viaggiando a pieno regime, sbuffando e ansimando con foga tra gli scaffali dei centri commerciali, nei cartelloni ai lati delle strade, nei colori rosso e oro che riempiono le città.
Fortunatamente io abito in aperta campagna, e ringrazio già molto per avere due lampioni davanti a casa, quindi le luminarie festose da me non arrivano. Gli alberi di Natale compaiono nei giardini e sui balconi delle case sparse qua e là, un po’ alla volta, senza tanto clamore, senza la violenza premeditata di un sistema organizzato. Ciascuno mette fuori le sue due luci quando può, come può.
Quando ero bambina, misuravo quanto mancava al Natale dal numero di alberi che riuscivo a contare nel tragitto casa-scuola. Quando anche la villetta gialla dell’angolo aveva messo fuori le luci, eravamo agli sgoccioli. In casa mia albero e presepe si facevano all’ultimo minuto, in extremis assoluto: il pomeriggio della vigilia. Mio padre era costretto ogni volta a correre al negozio a comprare quello che mancava, mentre noi bambini riempivamo di buchi il giardino cercando di strappare qualche zolla di muschio (e quando tornava, lui ci sgridava sempre). Alla befana, si smontava tutto. Due settimane di decorazioni, di aghi che cadevano a terra, di palline che rotolavano sotto il divano, di statuine perse e poi ritrovate; due settimane di capelli dritti di mia madre che odiava la confusione e quelle “cose” in mezzo al salotto le detestava platealmente.
Io invece mi stendevo alla sera sul pavimento, sotto l’albero, a fissare le luci che si accendevano e si spegnevano seguendo un disegno preciso, un ordine prefissato, che mi piaceva prevedere. E con la fantasia viaggiavo nel mondo dei balocchi.
L’attesa vera e propria, con le luci palpitanti nel buio notturno, dunque, durava mezza giornata: l’albero nasceva al pomeriggio, e la notte arrivavano i regali: un flash insomma. Ma erano poche ore emozionanti oltre ogni dire. A mezzanotte si andava a messa, ci si appisolava sulla panca, poi si tornava a casa cotti ben bene, per prendere sonno in un baleno. Alle prime luci dell’alba, il primo che si svegliava rotolava giù dalle scale a velocità supersonica per vedere i regali. Mi sono sempre chiesta come 5 pacchetti potessero produrre montagne così alte di carta da regalo, una volta aperti e scartati. Immancabilmente ogni Natale si rimaneva un po’ delusi: non perché il regalo non fosse quello sperato, anzi, proprio perché lo era. Ciò che avevo desiderato, non mi soddisfaceva mai. E si apriva l’abisso dei perché: com’è che non sono capace di desiderare davvero quello che mi farebbe felice? Possibile che niente sia mai come sembra? Che il nostro cuore non sia in grado di partorire un banale desiderio rispondente in modo preciso ai nostri bisogni?
Lo ammetto, da bambina la domanda non era formulata in questi termini un po’ complicati, ma il senso del mio sentire confuso era comunque quello. Un po’ alla volta, ho cominciato a dubitare di me e del Natale, della sua falsa magia, prevedendo già l’effetto delusione dopo la frenesia del sabato del villaggio. E così questo sguardo lungo sul domani ha finito per guastarmi l’attesa, fino a farmela odiare. Illusione, tutto è solo illusione.
Ogni anno si ripete il rituale, che adesso vivono i miei figli, in modalità del tutto simili alle mie (con l’unica differenza che io cerco di tollerare con più benevolenza di mia madre le decorazioni natalizie): nel loro sguardo, ogni anno più maturo, rintraccio la stessa inquietudine insoddisfatta, lo stesso bisogno di scavare più in profondità. Perché il Natale non è solo un regalo da spacchettare, ma è un messaggio di speranza dritto al cuore, il memoriale di un dono di cui abbiamo ancora bisogno, e ancora e ancora, ogni giorno che passa sulla terra. Tutte queste luci, questo sorridere festoso e forzoso, questo desiderio di commozione e di emotività, in realtà, nascondono l’essenzialità scarna e tragica della Verità: la felicità non passa per le cose, per gli agi e le comodità, non sta nelle giornate dove tutto fila liscio, e nemmeno nelle esistenze senza intoppi, o nella salute e negli abbracci scontati dei famigliari. La felicità si nasconde nella capacità di dare, di spremersi come limoni, di tirare fuori dal cilindro magico del proprio cuore quelle risorse che sembrano non esserci, per far felice qualcun altro. La felicità è un giaciglio di paglia scaldato dal calore di un bue, dopo aver viaggiato a dorso di mulo un giorno intero; la felicità è un tozzo di pane dopo aver patito la fame, è un abbraccio dopo essere stati soli, è una presenza dopo una mancanza. Ogni dolore è avvento, ogni sofferenza è presagio di Natale, ogni difficoltà è luminaria che annuncia la festa. Ma non la festa finta dove ci arriva quello che abbiamo desiderato noi, che non ci soddisfa mai e non sazia la nostra fame, bensì la festa vera dove ci viene donato ciò che ci serve davvero, quello che il nostro cuore brama senza saperlo dire, il cibo che ha tutte le vitamine che mancano al nostro spirito affranto.
Spero che questo Natale mi porti ciò che non chiedo, perché quello che desidero me lo posso procurare da sola. Quello di cui ho bisogno, invece, è quello che non ho, nemmeno nel cuore. E’ quel desiderio che mi supera, persino nell’immaginazione, la famosa sorpresa, che tutti da bambini chiedevamo a Babbo Natale. Ecco, io voglio una sorpresa, grossa, inimmaginabile, esagerata come Dio che si fa uomo e mi viene a trovare.
Be First to Comment